venerdì 30 maggio 2014

E' ARRIVATA LA... BORA

Ogni volta che si parla di calcio le idee sono spesso discordanti, un po' su ogni argomento: modulo, giocatori, allenatori e chi più ne ha più ne metta.
Ognuno di noi è allenatore e pensa di sapere tutto sul calcio anche se è comunque bello scornarsi tra amici senza poi arrivare ad una conclusione definitiva.
In questi ultimi tempi mi è capitato più di una volta di discutere se i più famosi allenatori siano dei bravi allenatori oppure dei totali incapaci; non voglio dilungarmi su queste cose perché le viviamo nel quotidiano.
Personalmente, tra i vari criteri di giudizio, reputo un grande allenatore colui che riesce con "poco" ad ottenere "tanto", a trarre dal gruppo il massimo e ad adattare le caratteristiche dei giocatori al modulo più congeniale.
C'è però un allenatore che credo metta d'accordo tutti sul fatto che è uno dei più grandi della storia del calcio: Velibor "Bora" Milutinovic, un autentico giramondo del pallone.


Bora nasce a Bajina Basta, città serba sul fiume Drina, al confine con la Bosnia nel 1944. Inizia a giocare a calcio sul finire degli anni 50 dapprima nelle serie minori jugoslave per poi trasferirsi nell'OFK Belgrado da cui ottiene la chiamata per militare in una delle due squadre più famose del proprio paese, il Partizan Belgrado.
Centrocampista centrale più di contenimento che di fantasia, milita per 6 anni nella squadra bianconera della capitale racimolando 40 presenze condite da 3 gol.
Nel 1966 decide di lasciare la Jugoslavia per trasferirsi in Svizzera, più precisamente nel Winterthur dove però rimane solo 1 anno prima di approdare nel Principato per giocare nel Monaco e 2 anni dopo approdare al Nizza, 20 chilometri più a sud. Con la maglia rossonera vince l'unico trofeo europeo della sua carriera calcistica, la Supercoppa di Francia del 1970.
Terminata l'avventura al Nizza disputa un'altra stagione nella nazione transalpina con la maglia del Rouen prima di decidere che il suo tempo in Europa è arrivato al capolinea.
Nel 1972 decide di accettare l'offerta dell'UNAM Pumas, squadra messicana di Città del Messico. E' amore a prima vista, con il club centroamericano vince una sola Copa Mexico tra il 1972 ed il 1976, nel frattempo Bora si accasa con quella che è la sua attuale moglie prendendo inoltre la cittadinanza messicana.
Terminata la carriera da calciatore, Bora decide di rimanere in Messico ad allenare proprio il Pumas. Ama molto il paese e per questo decide di accettare l'allettante proposta.

 

I risultati sono subito stellari, arrivano due titoli nazionali, nel 1977 e nel 1981 grazie anche ai gol di uno dei goleador più prolifici della storia del calcio, Hugo Sanchez.
Nel bel mezzo della sua prima avventura da allenatore riesce anche a conquistare una CONCACAF Champions League nel 1980 e la successiva Copa Interamericana battendo il più blasonato Nacional Montevideo fresco della vittoria nella Libertadores; un'impresa davvero unica se si pensa che nelle 18 edizioni disputate, solamente 4 volte il trofeo è stato vinto da una squadra centronordamericana e, prima del 1980, l'impresa era riuscita solamente al Club America 3 anni prima quando vinse alla bella contro il Boca Juniors.
Bora diventa famoso in tutto il Messico, la gente chiede a gran voce un suo impiego come CT della nazionale e nel 1986 il sogno si avvera. Bora accetta l'offerta della federazione per guidare il Messico ai Mondiali di casa.
L'allenatore serbo convoca 22 giocatori, 21 dei quali militano nel campionato messicano; l'unica eccezione è Hugo Sanchez nel frattempo approdato al Real Madrid. Tra i convocati figura anche Miguel Espana, centrocampista del Pumas presente anche ad USA 94.
L'esordio è contro il Belgio davanti ai 110.000 spettatori dell'Estadio Azteca, dove Quirarte e Sanchez liquidano i belgi in 15 minuti prima dell'inutile gol di Vandenbergh.
Nell'ultima partita contro l'Iraq è ancora il difensore Quirarte a guidare i verdi alla vittoria per 1-0, nel mezzo il buon pareggio contro il Paraguay che arriverà secondo proprio dietro al Messico.
Negli ottavi di finale viene liquidata 2-0 la Bulgaria (reti di Negrete e Servin) ma nei quarti la più forte (sulla carta) Germania elimina il Messico dopo i calci di rigore, fatali, guarda caso, l'errore di Quirarte e successivamente Negrin.
Per il Messico che mai aveva ottenuto tanto in una fase finale di un Mondiale, è di sicuro un ottimo piazzamento; per un attimo il popolo messicano riesce parzialmente a dimenticare il terribile terremoto dell'anno prima.

Milutinovic con Hugo Sanchez
Dopo l'avventura Mundial, Milutinovic inizia a girare il mondo. Nel 1987 guida per poco tempo prima il San Lorenzo in Argentina e poi l'Udinese nella serie B italiana senza lasciare un particolare segno.
Nel 1990 arriva un'altra impresa. Bora decide di accettare l'offerta della federazione costaricana che lo ingaggia per guidare la nazionale ai Mondiali italiani. Il Costa Rica partecipa al Mondiale per la prima volta, è un'autentica cenerentola e nel girone tutti si aspettano una semplice comparsata; ma non hanno fatto i conti con il serbo.
La nazionale rossoblù presenta 22 giocatori tutti militanti nel proprio campionato, i nomi conosciuti sono pari a zero; il girone li vede opposti a Brasile Scozia e Svezia, 3 nazioni nettamente più blasonate e forti nonostante non stiano attraversando il periodo migliore della loro storia.
Ma l'11 giugno allo stadio Ferraris di Genova si fa la storia: è Cayasso a portare i 2 punti al Costa Rica contro la Scozia al termine di un'azione corale.
La successiva sfida contro il Brasile vede la nazionale costaricense sopperire 1-0 grazie ad un gol di Muller (ex Torino); si arriva quindi alla decisiva sfida con la Svezia che ha 0 punti. Il primo tempo si conclude con il vantaggio vichingo grazie a Johnny Ekstrom (ex Empoli), ma nella ripresa il buon Bora non scompone la squadra ed ottiene una ancor più storica vittoria. Prima Flores e poi Medford stendono la nazionale svedese. Successivamente Medford approderà in Italia al Foggia senza lasciare traccia (12 presenze ed 1 gol).
Negli ottavi di finale arriva però il ciclone Skuhravy che con una tripletta chiude la porta in faccia alla nazionale guidata da Bora (risultato finale 4-1).
Quasi inutile dire che anche per la piccola nazione centroamericana il risultato sia più che soddisfacente.

Nel frattempo la FIFA ha scelto gli Stati Uniti per ospitare i Mondiali del 1994; come tutti ben sappiamo il calcio non è lo sport principale negli States, tuttavia la nazione a stelle e strisce vuole ben figurare.
Viene chiamato quindi a guidare la nazionale proprio Bora che accetta l'incarico nel 1991. Come per gli altri due mondiali, anche la nazionale statunitense ha nella sua rosa molti giocatori che militano in patria, la MLS non è ancora nata e di sicuro non risulta essere un campionato che attira gli appassionati. Ma anche qui ci pensa Bora, il giocatore sicuramente più conosciuto è John Harkes che milita in Inghilterra nel Derby County, figurarsi quindi gli altri; ma per Bora non è assolutamente un problema. Nelle prime due gare arrivano un pareggio contro la Svizzera (1-1) e la vittoria contro la Colombia (2-1) complice un autogol del povero Escobar; la sconfitta contro la Romania nella terza partita qualifica comunque gli Stati Uniti alla fase successiva, dove però trovano il Brasile futuro campione. E' un gol di Bebeto al 72° minuto ad eliminare la squadra di casa.
Il buon risultato del 1994 fa di Milutinovic uno dei migliori commissari tecnici della storia, abile nel selezionare determinati giocatori e bravo a creare un gruppo solido e pronto ad aiutarsi.
E' sicuramente da citare anche la vittoria nella Gold Cup (torneo riservato alle nazioni del centro e nord America) del 1991 e la finale persa nel 1993 nella stessa competizione per mano, ironia della sorte, del Messico con cui ritroverà l'incarico di CT nel 1995 portandolo alla vittoria, sempre della Gold Cup nel 1996, battendo in finale il Brasile 2-0.


Ma Bora fermo non ci riesce proprio a stare. Subito dopo la vittoria della Gold Cup, accetta l'incarico della Nigeria, pronta a misurarsi con Spagna, Bulgaria e Paraguay al Mondiale francese del 1998. A differenza degli altri mondiali, la nazionale africana non presenta nessun giocatore che milita in patria, complice anche la legge Bosman del 1995.
L'esordio al Mondiale è da favola, viene battuta la Spagna 3-2 e successivamente la Bulgaria 1-0 prima della sconfitta contro il Paraguay 3-1. Curioso come i 5 gol della Nigeria siano tutti segnati da marcatori differenti.
Milutinovic ha il coraggio di convocare molti giocatori che hanno non più di 25 anni e che successivamente diventeranno dei buonissimi giocatori ingaggiati anche da club importanti, tra i più famosi possiamo citare Okocha ed Oliseh; questa non è che un'ulteriore testimonianza della bontà nel selezionare i giusti giocatori.
Gli ottavi di finale vedono la Nigeria opposta alla Danimarca; come nelle ultime due esperienze mondiali la squadra allenata da Bora esce agli ottavi di finale. Moller, Laudrup, Sand ed Helveg sotterrano la Nigeria che ha solo il merito di trovare il gol della bandiera grazie a Babangida (altro giovane interessante).
Il popolo nigeriano vede comunque il passaggio del turno (il secondo consecutivo) come una vittoria, vedendo in Milutinovic un professionista serio e di sicura competenza. Bora riesce a lasciare il segno anche qua insomma.

Prima di accettare l'incarico con la Cina in vista del Mondiale nippo-coreano, Bora ritenta un'esperienza con una squadra di club; torna infatti negli Stati Uniti per guidare i New York Metrostars nella stagione 1998-1999, ma anche qui come nelle precedenti panchine (ad eccezione del Pumas) i risultati non sono quelli attesi e Bora torna a fare il CT.
La Cina ottiene la qualificazione ad un Mondiale per la prima volta ma a differenza delle 4 precedenti apparizioni, Bora non riuscirà a qualificare i rossi al turno successivo. La compagine cinese chiuderà il girone con 0 punti e 0 gol fatti.


Questo è attualmente l'ultimo Mondiale disputato da Milutinovic, negli anni successivi cambierà panchina ancora 4 volte, dapprima guidando l'Honduras e poi un altro club, l'Al Sadd con cui vincerà una coppa dell'Emiro. Nel 2006 accetterà l'incarico della Giamaica (6 partite, 6 sconfitte) e dal 2009 è il CT dell'Iraq con cui aveva firmato 3 mesi ma successivamente decise di prolungare il contratto. Nello stesso anno gli toccò guidare la nazionale irachena alla Confederation Cup, per poco non ci scappa l'impresa anche qui, dopo il pareggio contro il Sudafrica, arriverà la sconfitta (1-0) con la Spagna futura campione del mondo ed un altro pareggio contro la Nuova Zelanda; curiosamente l'Iraq chiuderà il girone con 0 gol fatti ed 1 solo subito.
Bora ha l'invidiabile record di aver superato il turno 4 volte su 5 ad un mondiale sempre con nazioni diverse.
Oltre ad essere un ottimo CT è anche persona squisita e di sicura simpatia; famose sono 2 frasi che vi riportiamo qui sotto:
Dopo aver sposato la moglie (miliardaria): "Nascere poveri è una sfortuna, sposarsi una povera è da scemi"
Dopo il Mondiale del 2002: "Prima del mondiale entrai in una chiesa per parlare con Dio. Mi ha chiesto: cosa vuoi Bora? E ho riposto: segnare come la Francia! E Dio mantenne la parola. Francia e Cina furono in questo mondiale le uniche due squadre che non segnarono gol. Certo che io mi riferivo a realizzare come la Francia fece nel 1998"
Al di là di queste simpatiche frasi, siamo davvero di fronte ad un allenatore di sicura competenza e conoscenza calcistica che ha saputo portare le sue nazionali a storiche imprese con la forza del gruppo e delle sue idee ben precise; ma siamo sicuri che un posto d'onore, nel cuore di Bora, lo trova anche il suo amato Pumas, squadra che ha portato sul tetto d'America ed al quale è legato da un profondo sentimento.



Matteo Maggio

martedì 27 maggio 2014

LOTHAR EMMERICH

In tutti gli sport esistono giocatori che restano nella nostra memoria per sempre, lasciando un ricordo indelebile di vittorie o grandi prestazioni e venendo considerati veri e proprio miti dagli appassionati sportivi.
Uno sport come il calcio non si sottrae a questa celebrazione e credo sia impossibile tenere il conto di quanti giocatori ne abbiano fatto la storia, pensando a quanti fenomeni abbiano calcato i campi dagli albori fino ai nostri giorni.
In questi casi tifosi o giornalisti possono sbizzarrirsi a snocciolare nomi o classifiche di tali calciatori, andando a pescare tra i più forti e famosi di tutti i tempi.
Ancora più difficile è ricordarsi di quelli  che in queste "rievocazioni" difficilmente troverebbero posto; non perchè siano stati o sono giocatori modesti, ma perchè determinati eventi non ne abbiano consentito l'ingresso nell'olimpo del nostro amato sport.
Probabilmente il nome di Lothar Emmerich risulta sconosciuto a tanti, nonostante sia stato un fortissimo centravanti e portentoso realizzatore in 3 campionati europei.


Lega il suo nome alla squadra della sua città, Dortmund, partecipando a suon di gol ai successi dei gialloneri negli anni' 60.
Si dimostra subito centravanti dalle grande forza fisica , che si manifesta in piede sinistro potentissimo, con il quale riesce a trovare la porta in qualsiasi condizione, anche da distanze siderali.
Molto muscolo, è ovviamente fortissimo nelle palle alte, specialmente quando sfrutta con abilità i traversoni provenienti dalle corsie laterali.
Inoltre è abile a giocare per la squadra ,diventanto un riferimento importante per i compagni, ai quali è in grado di fornire passaggi vincenti con continuità.
L'esordio arriva durante la stagione 1963/1964, dove si impone all'attenzione generale realizzando 16 reti in 28 apparizioni oltre ad un numero di assist notevole per una punta centrale.
Ottiene il primo successo nel 1965 vincendo la Coppa di Germania a sconfiggendo in finale l'Alemannia Aachen per 2-0. La seconda realizzazione porta ovviemente la sua firma, regalando al Borussia Dortmund il primo successo in questa competizione.
La stagione successiva rappresenta il suo apice, entrando nella storia del club della Renania.
La squadra tedesca ha la possibilità di partecipare alla Coppe delle Coppe ed incentra la stagione su tale competizione. Emmerich si scatena letteralmente già dal primo turno.
Nel doppio impegno contro il maltesi del Floriana apre le marcature nel match giocato a Malta e terminato 1-5. Nella partita di ritorno il Borussia vince 8-0 ed Emmerich mette a segno addirittura 6 reti, stabilendo uno dei primati assoluti delle coppe europee.
Negli ottavi l'avversario è il CSKA Sofia che viene eliminato nonostante la sconfitta per 4-2 in Bulgaria, in virtù del 3-0 nella partita di andata. Nel ritorno Emmerich realizza la rete del 2-1, dopo il veemente arrembaggio della squadra bulgara.
Nei quarti di finale contro l'Atletico Madrid segna sia all'andata in Spagna, terminata 1-1, sia nella partita giocata a Dortmund e vinta per 1-0.
Realliza due doppiette nelle semifinali contro il West Ham, vinte dalle squadra tedesca per 1-2 e 3-1. Nella gara d'andata giocata a Londra segna i due gol nei minuti finali, ribaltando lo svantaggio inziale.
L'epilogo finale viene giocato contro il Liverpool e termina 2-1 per il Borussia, dopo un'accesa partita decisa nei tempi supplementari da un gol di Libuda.
Oltre alla soddisfazione della vittoria europea, vince il titolo di capocannoniere della competizione, realizzando addirittura 14 gol. Tale bottino rappresenta il record imbattuto di gol segnati in una sola edizione della Coppa delle Coppe.


L'anno 1966 lo vede incredibilmente prolifico anche in patria, dove vince il titolo di capocannoniere con ben 31 reti. Nonostante ciò il Borussia non riesce a vincere il titolo, terminando secondo a soli 3 punti dal Monaco 1860.
Nello stesso anno si gioca il Mondiale in Inghilterra ed Emmerich è atteso come uno degli attaccanti più forti del panorama europeo.
L'avventura per la Germania termina in finale contro i padroni di case ed Emmerich gioca un buon mondiale, impreziosito da una grandissima rete nel match contro la Spagna e vinto per 2-1.


Queste saranno però le ultime partite da lui giocate con la maglia della nazionale, pagando le scelte tecniche che prediligono altre soluzioni.
Con la Germania Ovest gioca solo 5 partite segnando 2 gol; tali numeri sembrano davvero stonare vicino agli altri da lui prodotti durante il suo periodo di attività.


La sua esperienza con il Borussia Dortumund continua con la solita continuità realizzativa, nonostante si interrompa la seria di vittorie.
A livello personale vince anche la classifica marcatori 1966/1967 a pari merito con Gerd Muller con 28 reti.
Proprio l'esposione di quest'ultimo offusca un po' la stella di Emmerich, che riesce comunque a mettere a segno 30 reti nelle due successive stagioni.
Nel 1969 a soli 28 anni ritiene terminata la sua esperienza a Dortmund, forse per mancanza di stimoli o forse perchè desideroso di trovare un ambito diverso dove mettere in mostra le sue doti.
Lascia con un bottino finale di 126 reti in 215 partite di campionato e decide di approdare in Belgio, nel Beershot.
L'impatto con il campionato belga è subito positivo, tanto da diventare capocannoniere nella stagione 1969/1970, segnando 29 reti.
Con la squadra di Anversa gioca in totale 3 stagioni, contribuendo alla vittora della Coppa del Belgio nel 1971.
L'anno successivo ha la possibilità di cimentarsi con il suo terzo campionato, venendo ingaggiato dalla squadra austriaca del Karnten.
In Austria resta due stagioni, non riuscendo nella sua specialità di vincere la classifica cannonieri, nonostante segni 20 reti il primo anno e 21 il secondo.
Nel 1974 ritorna in Germania per giocare in squadre di serie minori, come Schweinfurt, Wurzburger e Kickers Wurzburg. In tali contesti continua a segnare con la solità continuità, fino al 1978, anno nel quale decide di terminare la sua prolifica carriera.
Dopo una lunga eperienza come allenatore nelle serie minori tedesche, scompare nel 2003 ad appena 62 anni.
In estrema sintesi stiamo parlando di uno dei più grandi realizzatori della storia del calcio, che a suon di gol si è conquistato il suo spazio in tale ambito.
La stessa storia l'ha forse un po' dimenticato e l'esplosione di autentici fenomeni hanno fatto sì che Emmerich non abbia al momento la rilevanza che merita.
Nella nostra memoria restano le sue reti e come buona parte di esse abbiano contribuito alle fortune delle squadre nelle quali ha giocato.
Anche in questo caso il termine "bomber" sembra davvero appropriato.


Giovanni Fasani

venerdì 23 maggio 2014

ONCE UPON A TIME

In due nostri precedenti articoli abbiamo parlato della formidabile cavalcata dell'Iraq alla Coppa d'Asia 2007, un'impresa davvero incredibile se si pensa in che condizioni versa il paese e della prima edizione della Copa Libertadores disputata nel 1960.
Con questo nuovo articolo cercheremo di unire le due cose, provando a raccontare l'autentica impresa compiuta da una squadra fino a quel momento semisconosciuta nel nostro paese, l'Once Caldas, squadra colombiana della città di Manizales.
 

Per fare ciò dobbiamo partire dall'anno 2003, quando la dirigenza dell'Once decide di puntare su un nuovo tecnico, Luis Fernando Montoya, il quale prende il posto di Javier Alvarez, tecnico che ha guidato l'Once più di una volta, vincendo solamente il campionato apertura 2009.
Montoya arriva dal 2° posto della stagione precedente, quando era alla guida dell'Atletico Nacional Medellin, mentre l'Once arriva da qualche anno non proprio ai massimi livelli; la bacheca è riempita da pochi trofei e si decide quindi di cambiare rotta, puntando su un allenatore giovane come Montoya.
Il cambiamento si nota subito, per stupore di mezzo Sudamerica viene vinto il campionato apertura 2003, l'Once chiude la regular season al 1° posto, così come la successiva fase a gironi che la proietta alla finalissima contro lo Junior.
0-0 a Barranquilla nella gara di andata e vittoria 1-0 al Palogrande di Manizales grazie alla rete messa a segno dall'attaccante argentino Sergio Galvan (10 reti totali), autentico trascinatore insieme ad Arnulfo Valentierra (13 gol nell'apertura 2003).
Per il Blanco si riaprono dunque le porte della Libertadores, manifestazione alla quale ha preso parte solamente 2 volte prima del 2004, senza mai passare la fase a gironi.
Gran merito quindi all'ottimo lavoro svolto dal 32enne Montoya che in poco tempo è riuscito ad assemblare un'ottima squadra, imponendo le sue idee ed ottenendo il rispetto di tutto lo spogliatoio.
 
 
Il modulo è un 4-2-3-1 trasformabile in un 4-5-1 in alcuni momenti della fase difensiva. Tra i pali troviamo Juan Carlos Henao, portiere con più di 300 presenze in maglia Blanco. La difesa a 4 parte da destra con il terzino Miguel Rojas, prelevato nel 2003 dall'Atletico Huila, squadra della sua città natale. I centrali Samuel Vanegas ed Edgar Catano garantiscono la giusta copertura ed a sinistra il terzino Edwin Garcia porta alla squadra corsa e forza fisica dall'alto dei suoi 184 cm.
I due mediani a protezione della difesa sono Jhon Viafara, autentico totem di 1 metro e 92 che può giocare indifferentemente al centro come sulla destra. Dopo l'esperienza all'Once Caldas, vestirà, tra le altre, le maglie di Portsmouth e Southampton, senza ottenere però le stesse fortune e Diego Arango, 8 anni in maglia Blanco, uno dei più presenti nel primo decennio del secolo.
I tre trequartisti sono Elkin Soto a destra, giocatore ancora in attività e reduce da un'ottima stagione in Bundesliga con il Mainz, Ruben Dario Velasquez sulla sinistra, tanta sostanza in copertura e veloce nelle ripartenze ed il già citato Arnulfo Valentierra, 30enne che può agire anche da seconda punta e che ama prendersi il pallone per favorire gli inserimenti della punta o dei compagni di reparto. In poco più di 250 presenze con l'Once Caldas ha messo a segno una novantina di gol.
In attacco si alternano 4 punte dopo che Sergio Galvan ha deciso di prendere la strada della MLS firmando, a metà stagione, un contratto con i New York Metrostars.
Jorge Agudelo e Dayro Moreno (90 gol in 220 partite con l'Once) si alternano nel ruolo titolare, Wilmer Ortegon e Javier Araujo pronti a sostituirli in caso di necessità.
Meritano una citazione anche il centrocampista argentino naturalizzato paraguayano Jonathan Fabbro, 20enne prelevato dal Boca Juniors che nell'unica stagione in Colombia ha totalizzato 39 presenze andando a segno 5 volte. Fabbro è il naturale sostituto dei trequartisti; Herly Alcazar, altro centrocampista offensivo dal gol facile. Anch'esso una sola stagione con il Blanco dove ha realizzato 13 gol in 28 partite, veniva spesso utilizzato anche da punta; per dirla in termini moderni e già utilizzati in questo blog, una specie di falso nueve.
E non ultimo il difensore Jefrey Diaz, quasi sempre subentrato dalla panchina e che garantisce all'Once grinta e sostanza.
 
Valentierra esulta dopo un gol
 
La fase a gruppi della Libertadores 2004 è composta da 9 gironi al termine dei quali le prime classificate e le migliori 5 seconde approdano direttamente agli ottavi, mentre le 4 peggiori runners-up danno vita a due spareggi di andata e ritorno.
L'Once Caldas è inserito nel Gruppo 2 unitamente ai venezuelani del Maracaibo, gli argentini del Velez e gli uruguayani del Fenix.
Per la vittoria finale della coppa le squadre favorite sono sicuramente altre e comunque non di certo il giovane Once; il San Paolo di Grafite (futuro attaccante del Wolfsburg campione di Germania) e Luis Fabiano, il River Plate di Marcelo Salas (ex Lazio) e Fernando Cavenaghi, il Boca Juniors di Abbondanzieri e Tevez, due giocatori che non hanno bisogno di presentazioni; oppure le sicuramente più blasonate Colo Colo, Nacional Montevideo e Penarol, queste ultime tutte uscite nei gironi.
Il cammino dell'Once Caldas inizia il 19 febbraio, quando al Palogrande arriva il Fenix che viene spazzato via con un secco 3-0 ed una settimana dopo in terra venezuelana avrà la meglio 2-1 sul Maracaibo.
Si arriva quindi alla doppia sfida col Velez che vede dapprima gli argentini vincere 2-0, salvo poi perdere con lo stesso risultato una settimana dopo a Manizales.
L'Once guida il gruppo con 9 punti dopo 4 partite e basta 1 punto nella gara interna contro il Maracaibo per ottenere la matematica e storica qualificazione al turno successivo. Ma i colombiani faranno molto di più, seppur a fatica riescono a battere i venezuelani conquistando addirittura la testa del girone.
L'ultima partita contro il Fenix è una pura e semplice formalità e si risolve in un 2-2 che vale solo per incrementare il bottino dei gol realizzati e subiti.
Gli 11 gol segnati in questa prima fase portano la firma di Valentierra, Galvan, Fabbro (3 gol a testa), Diaz e Soto (1 rete a testa).
Tutto ciò non fa che testimoniare l'ampia scelta che Montoya ha in attacco, il tecnico può contare su un reparto avanzato di sicuro dinamismo e fiuto del gol.
 
Jonathan Fabbro
 
L'avversario agli ottavi di finale è il Barcelona Guayaquil, squadra ecuadoregna arrivata seconda nel Gruppo 7 ma con soli 8 punti e quindi costretta allo spareggio, guarda caso, proprio contro il Maracaibo, classificatosi secondo nel girone dell'Once.
Se il cammino degli ecuadoregni nel girone si è concluso tra alti e bassi, la vittoria 6-1 nello spareggio non lascia dubbi sul fatto che l'ottavo di finale sarà molto più tortuoso del previsto.
Nell'andata giocata al Monumental di Guayaquil la gara si risolve in un poco spettacolare 0-0 e, nella gara di ritorno, sono gli ecuadoregni a portarsi in vantaggio grazie ad una rete di Josè Gavica, fortunatamente poi pareggiata al minuto 83 da Agudelo.
Non contando il gol di esterno, si procede con i calci di rigore. Gli errori di Walter Ayovì e José Chatruc condannanno il Barcelona alla prematura dipartita.
Per l'Once è un grande successo ovviamente e la possibilità di giocare il quarto di finale contro il Santos delle giovani promesse Robinho ed Elano è di sicuro un traguardo inaspettato.
I brasiliani non vincono la coppa dal 1963, anno in cui giocarono solamente semifinale e finale in quanto campioni in carica; la squadra bianconera è chiamata, insieme alle squadre citate prima, a fare un gran cammino e possibilmente chiuderlo con la vittoria finale.
Nell'andata giocata al Villa Belmiro, l'Once impatta 1-1 ancora in rimonta. Il gol di Valentierra al minuto 88 pareggia quello di Basilio realizzato 5 minuti prima.
Davvero un risultato insperato per la "piccola" compagine colombiana che nella gara di ritorno vince 1-0 grazie ancora ad una rete di Valentierra che insacca con una splendida punizione da circa 30 metri. E' il gol che vale la semifinale.
 

Al momento di capire chi è l'avversario in semifinale, ai tifosi dell'Once dev'essere passato un brivido lungo la schiena. Ovviamente a questi livelli tutte le squadre sono forti ma affrontare il San Paolo dà sempre una sorta di timore reverenziale, specialmente per una squadra abituata a ben altri palcoscenici.
Tuttavia la squadra di Montoya riesce a pareggiare 0-0 la gara del Morumbì davanti a 70.000 tifosi totalmente in estasi per il Tricolor e per i propri beniamini Rogerio Ceni e Luis Fabiano (futuro capocannoniere della manifestazione con 8 reti). Nel ritorno giocato una settimana più tardi al Palogrande le emozioni sono sicuramente di più, la partita viene sbloccata al 27° minuto da un gol di Alcazar che risolve in mischia, ma 5 minuti più tardi un preciso rasoterra di Danilo smorza gli entusiasmi colombiani.
La partita è zeppa di emozioni e quando tutto sembra orientato verso la lotteria dei rigori, ecco che Agudelo, lanciato in contropiede, insacca nella porta di Rogerio Ceni.
Se la vittoria contro il Santos è stata incredibile, questa è una vera e propria apoteosi per il popolo Blanco.
Nel video qua sotto trovate anche la formazione del San Paolo, tra le cui file c'era qualche nome poi approdato nel nostro campionato.
 
 
A contendere la finale alla squadra colombiana ci sarà il Boca Juniors, forte di una storia che non ha bisogno di presentazioni e forte dell'entusiasmo per la vittoria in semifinale contro i rivali di sempre del River Plate dopo una serie di calci di rigore da levare il fiato a qualsiasi appassionato di calcio.
Quasi inutile dire che il favore dei pronostici pende dalla parte argentina, i vari Barros Schelotto, Tevez, Schiavi e Burdisso hanno sicuramente una caratura maggiore rispetto a qualsiasi giocatore dell'Once, ma è una finale e tutto può succedere.
Il 23 giugno le squadre scendono in campo alla Bombonera gremita da 57.000 persone e centinaia di bandiere gialloblu; nel Boca non parte titolare Tevez, Carlos Bianchi preferisce un attacco formato dal duo Barros Schelotto-Barijho.
La partita termina 0-0 ma non senza aver regalato brividi da entrambe le parti. Verranno colpite tre traverse, per il Boca Schiavi di testa e Ledesma di destro da pochi passi (davvero clamorosa l'occasione sprecata dal centrocampista argentino), per l'Once Soto su calcio di punizione.
Il 1° luglio è il giorno della Copa, 42.000 persone occupano le gradinate del Palogrande.
Montoya, rispetto alla gara di andata, sostituisce Arango con Alcazar e Agudelo con Moreno; Bianchi invece opera una piccola rivoluzione sostituendo interamente l'attacco, vengono inseriti Cangele e Tevez, fuori anche Pablo Ledesma e Iarley in mezzo al campo per far posto a Fabian Vargas e Cascini; sulla parte destra difensiva Luis Perea prende il posto di Pablo Alvarez (attualmente in forza al Catania). Resta comunque una squadra sulla carta più forte, ma non sarà così.
Al termine dei 90 minuti è ancora pareggio, questa volta 1-1. Partita sbloccata al 7° minuto da un potente tiro di Viafara da fuori area, pareggiata al 51° da Burdisso abile ad incornare una punizione dalla destra di Cangele.
 



 
La Copa viene quindi decisa ai calci di rigore, dove sale in cattedra un protagonista inaspettato. Apoteosi a Manizales. Buona visione!
 
 
L'impresa è unica e rimarrà scolpita nelle menti e nei cuori di tutti i tifosi del Blanco e non solo, qualsiasi appassionato di calcio non può non essersi emozionato nel vedere il trionfo di una squadra che fino a quel momento non aveva mai visto gli ottavi di finale.
Gran merito a Montoya che nell'arco di 2 anni è riuscito a vincere titolo nazionale e Libertadores, un'impresa unica soprattutto se consideriamo l'età media molto giovane dell'Once, basti pensare che qualche giocatore è ancora in attività a distanza di 10 anni.
Se vogliamo trovare un trascinatore possiamo citare Valentierra ma direi che tutti hanno meritato in egual maniera il trionfo, una squadra ben collaudata dove sacrificio e dedizione l'hanno fatta da padrone.
Ma non è finita l'avventura dell'Once, l'aver vinto la Libertadores dà la possibilità alla squadra colombiana di partecipare alla Coppa Intercontinentale, l'ultima prima che la manifestazione si trasformi nel Mondiale per club.
L'avversario è il Porto di Mourinho che ha vinto la Champions League. L'Once si presenta a Yokohama senza Valentierra, l'attaccante colombiano ha preso la via dell'Arabia Saudita accettando l'offerta dell'Al Hilal. Al suo posto Aldo de Nigris, attaccante messicano.
Ancora una volta sono i rigori a decidere chi vincerà, dopo che nei 120 minuti nessuna delle due squadre è riuscita a violare la porta avversaria.
Questa volta gli errori di Fabbro e Garcia sono negativamente decisivi, il Porto vincerà 8-7 diventando quindi campione del mondo.
Negli occhi di tutti rimarrà comunque questa bella foto che ritrae la splendida impresa compiuta dalla squadra colombiana.
 

Dobbiamo purtroppo anche documentare un bruttissimo episodio di violenza che nulla a che vedere con il calcio e con la splendida cavalcata dell'Once Caldas.
Il 22 dicembre 2004, a seguito di una tentata rapina ai danni della propria moglie, l'allenatore Montoya rimane paralizzato in seguito ad un colpo di pistola partito da uno dei malviventi. Dopo alcuni giorni di agonia per Montoya e la famiglia, arriva la notizia che l'allenatore colombiano sarà costretto alla paralisi; nulla però fermerà la voglia di vivere di Montoya che attualmente è opinionista per alcune testate giornalistiche colombiane e prezioso consigliere tecnico per il Millonarios di Bogotá.



Matteo Maggio

martedì 20 maggio 2014

JOSEF MASOPUST

Uno degli aspetti più belli del calcio riguarda l'infinito numero di parametri con i quali è possibile analizzarne ogni singolo particolare.
Nel nostro ruolo di spettatori, possiamo apprezzare  un grande tiro, un dribbling esaltante o una parata miracolosa.
In quest'ottica siamo attirati dalla giocata spettacolare, dove sorge spontaneo lasciarsi andare in un applauso o sgranare gli occhi di fronte ad un qualcosa che riteniamo straordinario.
Siamo quindi abituati a prediligere l'aspetto tecnico sugli altri, concentrando la nostra attenzione e la nostra ammirazione su chi eccelle in quest'ambito.
Tuttavia la storia di questo appassionante sport è colma di grandi giocatori che si sono imposti anche grazie all' agonismo, alla sapienza tattica ed alle capacità atletiche.
Non si vuole ovviamente parlare di giocatori modesti o mettere in primo piano la quantità a discapito della qualità.
Lo scopo di questo articolo è quello di raccontare la carriera di uno dei giocatori più completi del panorama calcistico di tutti i tempi, autentico emblema del grande professionista e, a tutti gli effetti, del vero fuoriclasse.
Non si può non riconoscere che Josef Masopust sia stato uno dei primi esempi di giocatore "totale", ovvero in grado di fare benissimo qualsiasi cosa nel rettangolo di gioco.


Nasce a Most, nell'allora Cecoslovacchia, nel 1931 e tira i primi calci nella squadra locale, il Banik Most. Dopo un breve passaggio al Vedotechna Teplice viene notato dal Dukla Praga, che intuisce il talento del giovane centrocampista e lo tessera nel 1952.
Masopust viene impostato come trequartista o mezzapunta, ma le sue qualità lo rendono imprescindibile anche nella zona mediana, dove combina grande visione di gioco ad una tenacia sorprendente nel recupero della palla.
Letteralmente instancabile, si mette subito in mostra per la sua dinamicità, presentando sempre una condizione fisica impeccabile, che gli permette di giocare al meglio per tutti i 90 minuti.
Inoltre è in possesso di una tecnica elevatissima, evidenziata dalla grande sensibilità in entrambi i piedi, che gli permette di giocare con precisone ogni pallone che transita a centrocampo. 
Quando avanza lo fa con grande impeto, potendo scegliere se sfornare precisi assist per gli attaccanti o  trovare la porta con tiri forti e precisi sia di destro, il suo piede naturale, sia di sinistro.
Non è quindi facile trovarne un vero ruolo, avendo un riferimento che parte dalla propria zona mediana fino alla trequarti avversaria.
A riprova della sua classe, il suo nome viene anche associato ad un particolare gesto tecnico, il "Masopust Slalom": riusciva a far passare la palla da un piede ad un altro con grande velocità e in uno spazio stretto, saltando con facilità il giocatore opponente.
Nella squadra della capitale si impone subito come leader, scrivendo pagine irripetibili di successi.


In maglia giallorossa resta per ben 16 anni, vincendo 8 campionati e 3 coppe nazionali, legando per sempre il suo nome a quello della squadra. Le statistiche non chiariscono con precisione il numero delle sue reti: il dato più attendibile parla di 79 realizzazioni, non specificando, però, la suddivisione tra coppa nazionale e campionato.
Quello che manca a Masopust è la soddisfazione a livello internazionale, non riuscendo a vincere mai una delle coppe europee. 
Nonostante il dominio in patria, il calcio occidentale è superiore per qualità assoluta e per risorse, non lasciando tanti spazi alle realtà dell'Europa dell'Est.
In Coppa dei Campioni ottiene per tre volte l'accesso ai quarti di finale, mentre nella stagione 1966/1967 gioca un grande torneo arrivando fino alla semifinale contro il Celtic, che si impone in Scozia per 3-1 e mantiene la porta inviolata nel ritorno in terra ceca.
L'unanime riconoscimento internazionale se lo guadagna con la maglia della nazionale, in particolare nel Mondiale del 1962, dove riesce ad iscrivere il suo nome tra i più grandi di sempre.
La compagine allenata da Vytlacil si presenta come una delle realtà europee più accreditate, anche grazie al terzo posto conquistato nel campionato europeo 1960.
La Cecoslovacchia vuole inoltre far dimenticare le precedenti due edizioni, dove non era riuscita a superare il primo turno.
Masopust gioca un mondiale di altissimo livello, trascinando la squadra fino alla finale, battendo Spagna, Ungheria e Jugoslavia.
L'atto finale vede come avversario i campioni in carica del Brasile, che nonostante siano privi di Pelè, hanno in Garrincha, Vavà ed Amarildo un trio d'attacco davvero letale.
Le due rappresentative si erano già incontrate in questo Mondiale nel girone iniziale, in un match terminato 0-0.
La partita viene giocata il 17 giugno a Santiago del Cile e viene sbloccata al 14° minuto proprio da un gol di Masopust. 


La squadra brasiliana è però superiore e le sue individualità le consentono di ribaltare completamente il risultato, fissandolo sul 3-1 finale.
Al ritorno in patria per il forte centrocampista si ripropone la possibilità di vincere in campo nazionale con il Dukla Praga, non prima, però, di ottenere la sua più grande soddisfazione individuale.
La rivista francese France Football lo premia con il Pallone d'Oro 1962, superando nella speciale classifica il portoghese Eusebio ed il difensore tedesco Schnellinger.


Tale riconoscimento gli permette di avere quella visibilità internazionale che il campionato cecoslovacco e l'oscurantismo del dominio sovietico non gli aveva mai consentito di avere.
A proposito di quest'ultimo aspetto è bene considerare come il calcio cecoslovacco sia ancora dilettantistico, in quanto non esiste professionismo negli stati formalmente ancorati al governo sovietico.
Solo nel 1968 Masopust riesce ad ottenere lo status di professionista, emigrando in Belgio per giocare per 2 anni nel Crossing Molenbeek.
Dopo questa esperienza chiude la carriera, iniziando quella di allenatore, che lo vedrà sulla panchina di varie squadre, tra le quali proprio il Dukla Praga.
Ovviamente la chiusura delle frontiere ha giocato un ruolo importante nella sua carriera, privandolo di grandi successi, in particolare di quella Coppa dei Campioni che solo le suddette limitazioni gli hanno impedito di conquistare.
In assoluto è stato uno dei primi giocatori ad interpretare il ruolo del centrocampista in modo moderno, svincolandosi da un compito standardizzato per mettere le sue infinite qualità al servizio del collettivo.
Se volessimo catapultarlo nel calcio odierno, potremmo descriverlo, in modo un po' rozzo, come un connubio tra Pavel Nedved e Xavi, prendendo da entrambi le migliori qualità.
Al di là di improbabili paragoni, resta il ricordo di un grande professionista, che ha fatto della cultura del lavoro la sua forza, sorretta da qualità tecniche di valore assoluto.
Per certi campioni non ci devono essere rimpianti, in quanto rappresentano fuoriclasse che per sempre resteranno nella memoria degli appassionati di calcio, qualsiasi sia la caratteristica che si voglia esaltare.


Giovanni Fasani

venerdì 16 maggio 2014

SAEED AL-OWAIRAN

Durante l'arco della storia le manifestazioni mondiali ci hanno sempre regalato qualche squadra cenerentola (Haiti, Senegal, Angola per citarne qualcuna) o qualche giocatore un po' fuori dalle righe o poco conosciuto (qui l'elenco sarebbe molto più lungo).
Ci sono anche giocatori che oltre ad essere poco conosciti, trovano il loro momento storico andando a segnare un gol particolare o molto importante per la propria nazione.
Tutto ciò accadde all'Arabia Saudita durante il mondiale americano del 1994 e più precisamente a quello che è definito, ad oggi, il miglior attaccante dei Figli del Deserto. Stiamo parlando di Saeed Al-Owairan, attaccante classe 1967 autentica bandiera dell'Al Shabab Riyadh con cui ha giocato dal 1988 al 2001.
Al-Owairan diventa famoso per un gol assolutamente incredibile segnato al Belgio al 5° minuto dell'ultima partita del girone. Gol che è valso, alla nazionale saudita, il secondo posto nel girone e la storica qualificazione agli ottavi di finale.
 

A molti potrebbe ricordare il gol di George Weah al Verona, segnato però 2 anni più tardi. Una clamorosa sgroppata che termina con un potente tiro che si insacca alle spalle di Preud'homme.
Questo gol oltre all'importanza esponenziale, è stato votato come il 6° più bello di tutti i tempi nella storia dei mondiali dietro ad autentiche icone quali Maradona (1° e 4° posto) e Pelè (3° posto).
Ma la storia di Al-Owairan è anche qualcosa di più di questo gol; la sua carriera ha inizio nel 1988 quando appena 21enne fa il suo debutto nell'Al Shabab, squadra con cui avrà il merito di vincere 3 Campionati sauditi nel 1991-1992-1993 più 1 Coppa Principe Faisal Bin Fahad nel 1989, 2 coppe della Corona del Principe saudita (1993 e 1999), 2 Supercoppe arabe (1996 e 2001) e 5 trofei a livello continentale o regionale tra cui 2 Champion's League arabe (1992 e 1999), 1 Coppa delle coppe dell'AFC (2001) e 2 Coppe campioni del Golfo (1993 e 1994).
Non pochi i trofei vinti quindi dal campione saudita che ha sempre trascinato la propria squadra ai massimi livelli, vincendo, a livello personale anche la classifica cannonieri 1992 e miglior giocatore asiatico nel 1994.
 
Al-Owairan (a destra) solleva la Coppa Coppe d'Asia
 
Con la nazionale del proprio paese ha partecipato, nel 1992, dapprima alla Coppa re Fahd, un quadrangolare che l'ha messa di fronte a Stati Uniti ed Argentina, nazionale con cui ha perso la finale; in tale partita Al-Owairan andò a segno al minuto 65. Successivamente l'Arabia Saudita partecipa alla Coppa d'Asia, anch'essa persa in finale contro il Giappone. In questa manifestazione l'attaccante saudita andrà a segno 2 volte, nel girone contro la Tailandia ed in semifinale contro gli Emirati Arabi.
Dopo il mondiale 1994 ritornerà in patria da vero eroe; verrà ingaggiato da alcune grosse multinazionali prestando il suo volto per diverse pubblicità  e ricoperto d'oro da re Fahd, ma il successo ed i soldi faranno male ad Al-Owairan che cadrà in numerosi vizi tra cui la frequentazione di alcuni locali a luci rosse. In uno di questi verrà arrestato e condannato a 3 anni di reclusione.
Verrà successivamente "perdonato" potendo così partecipare ai Mondiali francesi del 1998 senza però lasciare alcun segno.
Le scarse immagini e video di cui disponiamo faranno si che nei nostri occhi rimarrà quel clamoroso gol ad USA 94, entrato per sempre nella storia del calcio.


Matteo Maggio

martedì 13 maggio 2014

MATTHEW LE TISSIER

In un mondo del calcio globalizzato, dove i soldi e la visibilità giocano un ruolo predominante, non è difficile incappare in situazioni opposte, dove il cuore e l'istinto hanno la meglio su guadagni e fama.
E' altrettanto vero come tali fenomeni siano da ricercare agli albori di questo sport, quando di soldi ne giravano pochi e tutto era un po' più amatoriale e meno standardizzato a schemi e modelli ora in uso.
Tuttavia la storia del calcio ci ha lasciato anche qualche esempio in anni più recenti, di chi ha preferito essere grande in un contesto piccolo, svincolato da compiti tattici ed assolutamente dipendente dal suo smisurato talento.
L'ultimo indizio prima di arrivare al tanto celebrato nome è quello relativo al fatto che, probabilmente, stiamo parlando di uno dei giocatori tecnicamente più forti del calcio moderno, un vero e proprio spettacolo per gli occhi.
Per tutti gli appassionati il nome di tale fenomeno è Matthew Le Tissier, ma a Southampton preferiscono chiamarlo "Le God".


Nasce nel 1968 in una delle isole inglesi del canale della Manica, il Guernsey, dove inizia la sua avventura come calciatore.
Per le normative inglesi può quindi scegliere la nazionale per la quale giocare, grazie alla sua origine di "isolano". La scelta ricade sull'Inghilterra, nonostante con altre federazioni possa avere maggiori opportunità di scendere in campo.
Dopo qualche provino non andato a buon fine, si accorge di lui proprio il Southampton, che ne intravede le straordinarie qualità.
I dirigenti dei "Saints" non si sbagliano e danno vita ad uno straordinario connubio, che dura per tutto il periodo di attività del giocatore.
Le Tissier in campo è un vero prodigio, baciato da tecnica elevatissima, che gli permette di controllare la palla in modo sempre perfetto diventando il punto di riferimento primario per i compagni.
Come impostazione sarebbe un trequartista, ma non è raro vederlo davanti alla difesa ad impostare, proponendosi come leader indiscusso ed assolutamente libero di "creare" in ogni zona del rettangolo verde.
A volte sembra che abbia gli occhi anche dietro alla testa, riuscendo a vedere corridoi impossibili, dimostrando una visione a 360 gradi del campo.
Sua grande dote è quella di calciare indifferentemente con entrambi i piedi, avendo nel destro il suo piede naturale, con il quale riesce a trovare la porta con sorprendente precisione anche dalla lunga distanza e su calcio piazzato.
Sono proprio le giocate impossibili o le soluzioni improbabili a renderlo celebre, tanto che più di un portiere è stato battuto da una sua cannonata da 30 metri o da un suo sublime pallonetto.
Soprattutto nei primi anni di attività è in possesso di uno spunto irresistibile, grazie alle lunghe leve che gli permettono finte difficili da leggere per il difensore opponente.
L'unico suo limite è il fisico: in tutta la carriera non risulta mai avvezzo all'allenamento, non mostrando mai un fisico longilineo da atleta. Inoltre non disdegna qualche buona birra, che mal si bilancia con la scarsa vena al sacrificio.


Nei primi anni si mette subito in mostra ed arriva alla maturità calcistica come uno dei giocatori più forti del movimento britannico.
Ovviamente riceve offerte da più titolati club britannici, ansiosi di mettere sotto contratto un simile asso. Le Tissier rifiuta qualsiasi proposta, anche economicamente rilevante, restando al Southampton dal 1986 al 2001, scrivendo le pagine più belle del club. Tra mito e realtà si parla anche di un accordo scritto con il Tottenham che il giocatore decide di stracciare tra l'incredulità di tutti.
Dando un'occhiata alle statistiche appare evidente come le stagioni migliori siano quelle che vanno dal 1992 al 1995, dove fa letteralmente la differenza, segnando, nel solo campionato 50 reti.
Nonostante non sia un attaccante riesce a segnare con grande continuità, grazie a quella sua facilità di calcio che gli permette di realizzare gol memorabili.



Oltre a ciò è un rigorista praticamente infallibile, sbagliando un solo rigore dei cinquanta tirati in carriera. L'onore di rompere tale record spetta a Mark Crossley del Nottingham Forest, in una partita giocata nel 1993.
La decisione di restare a Southampton lo priva della possibilità di giocare per vincere, essendo la squadra inglese sempre impegnata nella lotta per non retrocedere.
Le vittorie di Le Tissier sono le salvezze ottenute, al quale contribuisce con 162 reti e con un numero infinito di assist per i compagni.
Se non l'aver mai giocato in una grande squadra non rappresenta un rimpianto, forse il rapporto con la nazionale poteva essere migliore e più soddisfacente.
Le Tissier gioca solo 8 partite in maglia bianca, scontrandosi con i dubbi dei vari commissari tecnici, che non ne apprezzano l'indolenza agli allenamenti e la scarsa adattabilità ai loro rigidi schemi.
Gioca la più importante partita il 12 febbraio 1997 contro l'Italia, in un match valido per le qualificazioni ai mondiali e deciso dal gol di Gianfranco Zola. Schierato seconda punta, non riesce ad incidere e l'allenatore Hoddle lo toglie nel secondo tempo. 
Appena migliore il rendimento con l'Under 21, con la quale gioca 21 partite e regala qualche sporadica magia e 3 realizzazioni.
A completare il suo strano rapporto con le squadre nazionali vi è una partita tra la squadra riserve dell'Inghilterra e quella della Russia: in tale contesto Le Tissier è letteralmente scatenato, realizzando 3 gol e cogliendo per due volte la traversa.
In una carriera così lunga è difficile estrapolare dei momenti decisivi, ma possiamo identificare 4 partite, ad esempio del suo talento e celebranti la sua carriera.
La prima la gioca il 14 febbraio 1994 contro il Liverpool; realizza una tripletta nel 4-2 finale per il Southampton, segnando al primo minuto di gioco e realizzando con freddezza due rigori per il successo finale.
Due mesi più tardi mette a segno altri 3 gol contro il Norwich, realizzandoli in appena 14 minuti e contribuendo al successo dei Saints nel pirotecnico 4-5 finale.
Nel 1996 il Southampton ottiene una delle vittorie più importanti e larghe della sua storia; il 26 ottobre 1996 travolge per 6-3 il Manchester United, con Le Tissier che realizza un meraviglioso gol al 35°minuto.


L'ultimo incontro da ricordare è quello che coincide con la sua ultima rete in Premier League, realizzata nel 3-2 contro l'Arsenal il 9 maggio 2001 ed ovviamente con una fantastica conclusione al volo.


La stagione 2001/2002 è l'ultima per Le Tissier che si concede solo 4 apparizioni e viene celebrato con una grande festa da tutto il pubblico.
Curiosamente si oppone al ritiro della sua storica maglia, la numero 7, che vuole sia assegnato al giocatore più fantasioso della squadra.


Chi ama il calcio non può che amare Le Tissier in quanto massima espressione di un talento naturale limpidissimo e di una genialità calcistica riscontrabile solo nei fuoriclasse.
Non c'è spazio per recriminazioni su quello che avrebbe potuto fare in contesti più elevati o se fosse stato più incline al sacrificio: per lui il massimo è essere stato "Le God" per i "Saints".


Giovanni Fasani